Compositori quali Bellini, Donizetti, Pacini, Petrella, Mercadante e Verdi sembrano comporre in contrasto con le cosiddette regole del Bel Canto, usando note ribattute e aspre, acuti intensi, accenti ricchi di frenesia e passione, slancio verso spazi più ampi di un’ottava fino a una dodicesima. E per questo nuovo modo di cantare non esisteva una particolare pedagogia capace di far primeggiare il solista sulle definitive, dilatate sonorità orchestrali.
Donzelli, Moriani ed altri ci riescono.
Alberto Mazzuccato (Udine 1813 – Milano 1877) ci spiega perché. Ricordato dai più per aver prima criticato e poi tradotto il Trattato Completo dell’arte del Canto di Manuel Garcia, musicologo esperto di vocalità ma anche compositore, parla apertis verbis di questo nuovo modo di cantare, nel N°14 della Gazzetta Musicale di Milano, 1842 (cifr. A. Della Corte – Canto e bel Canto – G.B.Paravia- 1933) “…come se si trattasse di due foggie... del tutto disparate e diverse..” contesa pressoché inutile fra i sostenitori dell’uno o dell’altro sistema a cui intenzionalmente toglie ogni demarcazione , promuovendo e auspicando una linea di continuità a favore di uno stile unico. Il Mazzuccato, qui di seguito, ci espone la tecnica di questi cantanti con la precisione ed il rigore dello studioso: “Essi devono esser forniti di ciò che è la vera e sostanziale essenza del bel canto. La loro diversità, che pur si rivelava distinta, vuolsi attribuire a semplici accessori. Fra questi c’è quel carattere sonoro che il Garcia chiama timbro chiuso (timbre sombre, voice sombrée), e che si usa per dar volume alla voce, e si ottiene rialzando il velo palatino fino a chiudere affatto l’apertura posteriore delle fosse nasali, ed accanalando la lingua, la quale è tenuta tesa alla sua base dalla laringe, che in questo timbro resta sempre immobile e alquanto più bassa che non nella posizione naturale. La forma che ne ottiene la faringe è cagione di questo maggior volume e rotondezza di suono vocale. Questa modificazione non si ottiene perfetta che sullo vocali e ed o stretto, e sulla vocale u.
Cantando sulle altre vocali ben chiare, è impossibile conservare la forma suindicata all’organo vocale. Questo timbro, che noi ci siamo provati di spiegare, dà alla voce, come abbiamo accennato, un maggior volume, vale a dire un suono imponente, grandioso, pieno, da non spingere mai all’eccesso. Questa grandiosità vocale fu grandemente accetta ai nostri cantanti, passati, e tutti essi d’accordo, salvo rarissime eccezioni, unicamente adottavano questo timbro, come l’unico adatto alla maestà dell’arte musico-declamatoria….”. Escudier, grande conoscitore di musica verdiana e di Verdi, plaudendo a questo stile afferma nella Gazzetta musicale di Milano, n° 47, che “…artisti di un ordine distinto si sono a larga mano sviluppati sotto l’influenza del suo genio. Ciò che dà speciale carattere alla scuola di canto formatasi dopo la comparsa di Verdi è l’intelligenza, è il sentimento drammatico, elevato alla più alta possanza. Il cantante identificandosi nel personaggio, o meglio la voce umana animandosi al soffio della passione, noi vediamo l’ideale della tragedia lirica…”. E sin dai tempi del Nabucodonosor (1842) circolava voce che Verdi rovinasse le voci, accusa periodicamente ribadita per il precoce abbandono delle scene del soprano Giuseppina Strepponi, avvenuto tra il ’44 e il ’46 a 30 anni e perché, si disse, la sua musica non rappresentava i nuovi ideali sonori. Tutto ciò fin quando compare sulla scena il genio di Bayreuth, Richard Wagner, che per anni fu omaggiato beneficiando dello stesso discredito. E Verdi nel ’57 suggeriva irritato a Leone Giraldoni, di cui parleremo diffusamente più avanti : « Fa’ che i cantanti cantino e non gridino; declamare non significa urlare». In effetti le difficoltà riscontrata dai cantanti nello stile Verdiano erano una esigua parte, come ribadisce più volte il Della Corte in Canto e Bel Canto (Paravia 1933), tali difficoltà erano dovute alla assenza di quegli studi specifici a cui Giraldoni darà impulso, non solo in Italia ma anche in Russia, con una didattica ragionata che avrebbe dotato i cantanti, dopo un buon addestramento, di quell’esperienza necessaria per affrontare il disagevole Verdi e i primi vagiti del Verismo. L’ultimo grande ostacolo, creduto insormontabile per quei tempi, è di un repertorio che, tra il ’60 e l’80, si va sempre più allargando, non solo aumentando il numero delle recite in cartellone ma rivalorizzando vecchie opere con belle “mise en scene” per tutti i gusti. Ogni teatro è un viavai di direttori d’orchestra, strumentisti e cantanti i quali proveranno a crearsi una sfera d’azione e una specializzazione. Ma siamo già alla fine dell’800, la Belle Epoque si va dissolvendo, mentre sorge il sole del nuovo secolo in cui si affermeranno cantanti come Enrico Caruso, Giacomo Lauri Volpi, Battistini, Titta Ruffo e Maestri come Antonio Cotogni e Arturo Melocchi. E il nuovo diventò moderno.